Benedetta polemica
Le polemica in Italia, o meglio un certo tipo di polemica, quella che una volta si sviluppava nei bar e oggi fra i commenti sotto ai post dei social network, si sa, è un passatempo che non va mai fuori moda ma si ricicla, reinventa, trova nuove forme per esprimersi, tanto che si ha quasi l’impressione che sia sempre un passo avanti a noi, pronta a scatenarsi quando meno ce l’aspettiamo.
Calcio, ovviamente, nell’ultimo anno la geopolitica, prima ancora le malattie infettive, il Festival di Sanremo, la politica e, più di ogni altra cosa, la cucina: come si dice in questi casi, non accettiamo lezioni da nessuno!
A questo proposito ci sembra incredibile che sia passato quasi inosservato un podcast molto istruttivo e interessante che si chiama DOI (denominazione di origine inventata) in cui Alberto Grandi, professore di storia dell’alimentazione, smonta con forti argomentazioni miti e leggende legati al monolite della cucina italiana. Se non lo conoscete evitiamo gli spoiler, ma vi consigliamo di ascoltarlo su Spotify.
Ha destato invece molto più interesse, al limite dell’insurrezione popolare, un articolo del sito Dissapore che illustrava i 10 peggiori piatti fatti in casa per noi da Benedetta Rossi, arcinota blogger e conduttrice tv con un esercito di 4 milioni di followers al seguito. L’articolo metteva in luce alcune scelte innegabilmente discutibili nelle ricette recensite: dalla sproporzione nell’uso di farina e lievito, all’utilizzo di ingredienti troppo grassi, ai würstel e patatine proposti come merenda per i bambini; oltre a questo veniva poi criticata la scelta di alcuni prodotti in scatola o già pronti, non perché debbano essere evitati, ma sottolineando, per esempio nel caso della pasta sfoglia da banco frigo, come fosse stata usata nel modo sbagliato.
L’ articolo di Dissapore è stato il classico fiammifero acceso accanto a una tanica di benzina e nei giorni successivi si sono scatenati commenti e insulti sia da parte dei followers della blogger marchigiana, punti sul vivo, sia di quelli che appoggiavano anche con toni troppo accesi e fuori luogo le legittime osservazioni sollevate da Dissapore.
Alla fine è stata la stessa Benedetta Rossi a rispondere agli attacchi subiti con un video nel quale rivendicava le proprie scelte, dichiarando di non avere mai detto di essere una chef e di sentirsi dispiaciuta non tanto per gli insulti personali ricevuti quanto per quelli rivolti alla propria fan base, tutta gente che deve fare quadrare i conti e che per forza di cose si deve affidare a scatolette di tonno e a insalate in busta. Tutto giusto, tranne che è stato mancato in pieno il punto più importante di tutta la faccenda.
Siamo tutti gastrofighetti?
L’esercito degli haters della blogger sono stati in fretta e furia catalogati come Gastrofighetti, una scelta infelice e un nomignolo dispregiativo che è il segno più marcato della non comprensione del reale problema in ballo. il Gastrofighetto in breve ha già trovato il suo identikit: puzza sotto il naso, sveglia il mattino presto per fare l’impasto con il lievito madre, il soffritto lo prepara solo con lo scalogno, frequenta ristoranti stellati, è ricco di famiglia, of course, e vota Partito Democratico. Insomma fa parte della grande famiglia dei Radical chic, altra definizione quasi sempre affibbiata a sproposito.
Ma le bande di troll, i leoni da tastiera, le schiere di self made chef con il sogno di vincere Masterchef per cambiare la loro vita, che hanno attaccato e insultato la blogger, possono essere definiti Gastrofighetti?
E i professionisti del settore? Che molto sommessamente hanno provato a fare sentire la loro voce? Gente che sa cosa vuol dire lavorare davvero in cucina, cuochi veri in un mondo in cui tutti si definiscono chef, che si sono fatti la gavetta e non tre mesi in tv e che, strano ma vero, lottano ogni giorno pure loro con la calcolatrice per fare tornare i conti, sono Gastrofighetti?
L’articolo di Dissapore non condannava l’utilizzo di ingredienti pre confezionati, e nemmeno le ricette furbe che con qualche scorciatoia semplificano procedimenti lunghi e complessi. La scelta di acquistare l’insalata in busta, il tonno in scatola, i filetti di pesce surgelati, sono legittime, ciò che meriterebbe un serio contraddittorio invece, ed era il dubbio sollevato dall’articolo, è l’idea che questo tipo di scelte siano sempre favorevoli alla nostra salute, senza contare che spesso il prodotto confezionato, lanciato a un prezzo in apparenza molto conveniente, si rivela poi del tutto anti economico se raffrontato con il prezzo al kilo dello stesso articolo acquistato fresco al banco, o che il consumo di prodotti ad alto contenuto di grassi vada sempre bene perché fatto in casa. Sarebbe legittimo attendersi maggiore cura e maggiore attenzione per aspetti legati a una alimentazione equilibrata, di cui la dieta mediterranea è maestra, da parte di chi ogni giorno parla a milioni di persone.
Eppure tutta questa parte, la vera ciccia del discorso, sembra essere rimasta sommersa nel marasma di una polemica frettolosamente ridotta a battaglia fra non meglio identificati gastrofighetti e supposti difensori della cucina Pop.
In principio era la Sora Lella
Benedetta Rossi non ha inventato niente, come non l’hanno fatto Antonella Clerici o Benedetta Parodi prima di lei, o Wilma de Angelis o Suor Germana per i più attempati.
L’ esempio però più virtuoso da portare, fra chi negli anni ha parlato di cucina in tv, ci pare essere la Sora Lella (la nonna di Carlo Verdone in vari film) mitica cuoca romanesca che proponeva ricette fatte in casa, non con il piglio della furbizia, ma con quello della qualità, che non vuol dire spendere un sacco di soldi, ma sapere scegliere gli ingredienti in base alla stagionalità; la Sora Lella non solo dava la ricetta, ma insegnava ad andare a prendere l’insalata al mercato, e come riconoscere il taglio di carne adatto al piatto che si sceglie di preparare. La Sora Lella certo oltreché casalinga, era pure una ristoratrice e quindi aveva l’occhio più allenato di chi apre un canale su YouTube, ma il concetto che passava dalle sue ricette era che a dominare sul piatto ci sono sempre gli ingredienti e la cura con cui vengono scelti.
Chi lo dice che il gusto debba stare nella complessità? Un piatto più è difficile da preparare e più è gustoso? Oppure la vera bontà, il vero piatto furbo, è quello realizzato con tre ingredienti buoni?
Un piatto veloce per cena? Meglio spaghetti conditi con olio extravergine di oliva e Parmigiano Reggiano o una pizza rustica preparata con la sfoglia del banco frigo, patate, cipolle e una scatoletta di tonno?
De gustibus, ma secondo noi la semplicità vince sempre.
Noi non siamo gastrofighetti
Ecco perché non si può parlare di gastrofighetti quando ci si trova di fronte a scelte di comune buon senso; oggi più che mai la stagionalità, il rispetto per le colture e l’ambiente, il consumo di cibo in maniera consapevole, non devono essere viste come tematiche da fighetti. La qualità in favore della quantità dovrebbe essere un principio da applicare, pur con tutte le difficoltà delle nostre vite, nelle scelte che ogni giorno facciamo in campo alimentare sia a casa sia quando decidiamo di mangiare fuori.
A volte ci chiediamo se l'approccio del Tabernario riesca ad arrivare completamente ai nostri clienti; il valore dell’attesa per esempio, che non è priva di senso sia che si tratti di spinare una birra a regola d’arte sia che riguardi la lievitazione in modo indiretto, quindi per più giorni, dell’impasto delle nostre pale. Noi non ci sentiamo Gastrofighetti, anzi rivendichiamo la nostra anima Pop e la volontà di condividere il piccolo grande bagaglio di conoscenza nel campo del cibo come in quello della birra e del vino, che abbiamo accumulato in qualche anno sul campo. Avere un contatto diretto con il produttore, saper selezionare i prodotti e raccontarli, cercare insomma di dare il meglio al giusto prezzo, senza paura di essere tacciati di gastrofighetteria o di chissà cos’altro alla prossima polemica è ormai da tanto la nostra linea di condotta.
The pizzoccheri situation
Un articolo sul come giudicare il valore reale del cibo ci girava in testa da un po’ e il caso Benedetta Rossi, se non altro, ha avuto il merito di spronarci a mettere nero su bianco la nostra visione.
Ci pensiamo da qualche mese, più o meno dai tempi di un’altra polemicuccia a carattere molto più ridotto che partiva da una famigerata classifica dei migliori ristoranti in cui mangiare i pizzoccheri, che non vedeva al suo interno nessuno locale di Teglio patria mondiale del prodotto valtellinese per eccellenza, e di quale sia la sola e unica ricetta originale di questo piatto.
Due argomenti che per noi non hanno il minimo senso, se non per accendere, come del resto è successo, una ennesima sterile polemica.
Quando si parla di Pizzoccheri non dovrebbe essere tanto importate il dove li si mangia, o se vadano conditi con le coste oppure con la verza (dovrebbe essere sottolineato invece l'utilizzo dell’ortaggio di stagione), ciò di cui si dovrebbe parlare a fronte di un piatto di pizzoccheri è la provenienza del formaggio, il tipo burro che è meglio utilizzare, il saper riconoscere se il pizzocchero è stato preparato con una farina di qualità o se invece ne è stata usata una a buon mercato, per non parlare della domanda delle domande: da dove viene la farina?
Tutto questo vale per i pizzoccheri come vale per tutti gli altri piatti della tradizione italiana, una tradizione forse a volte un po’ cialtrona (specchio della nazione) ma senza dubbio ricca di sapori dei quali è impossibile non innamorarsi e non infervorarsi al sorgere di ogni polemica culinaria.
Abbiamo fatto polemica anche noi in questo articolo lo ammettiamo, nonostante la nostra nota sobrietà e democristiana diplomazia, tuttavia speriamo di avere sollevato qualche pensiero intelligente, un bella riflessione da condividere in prima persona la prossima volta che passate per un pala o un bicchiere di vino naturale… ah, il vino naturale! Non fateci aprire una nuova polemica per carità…