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Se siete frequentatori abituali del Tabernario sapete bene che da noi quando si brinda lo si fa con una bottiglia di Somèlech, un metodo classico che curiamo in prima persona e che ben rappresenta una sfumatura importante della nostra filosofia.
Quando in Valtellina si parla di vocazione vinicola difficilmente si guarda al versante orobico delle Alpi, senza sapere che tale vocazione appartiene in parte anche al territorio di Albosaggia dove resistono antichi vigneti che meritano di essere recuperati e condotti dalle nuove generazioni, sempre sotto lo sguardo severo degli anziani; ed è proprio da uno dei grandi vecchi bosacc DOC che il Somèlech prende in prestito il proprio nome.
Nel dialetto di Albosaggia, infatti, Somèlech significa fulmine, un vocabolo arcaico con radici profonde nella terra a cui appartiene; un suono magico e misterioso che è da sempre il soprannome di un'uomo instancabile per natura. Un po’ uomo, un po’ supereroe, il Somèlech è come Flash perché tutti sanno che quando si mette a lavorare a qualcosa, soprattutto in vigna, va veloce come il vento, anzi come un fulmine.

Secondo la mitologia greca, ci fu un tempo in cui gli uomini erano ammessi alla presenza degli Dei per trascorrere con loro momenti di convivialità. Durante uno di questi incontri fu servito un bue che doveva essere spartito a metà fra gli esseri mortali e quelli divini. Il titano Prometeo, amico degli uomini, organizzò un tranello così da lasciare che a questi ultimi fossero assegnate le parti migliori dell'animale e nascose quindi sotto le viscere del bue i tagli più pregiati e le ossa sotto il grasso e quando a Zeus fu data facoltà di scegliere la parte destinata agli Dei, scelse la parte avvolta nel grasso, in apparenza la più gustosa, ritrovandosi invece con gli avanzi. Fu così che gli uomini scoprirono il piacere della carne grigliata, ed è per questo che da allora iniziarono a sacrificare agli Dei solo le parti meno nobili degli animali. Zeus non la prese bene, e come un padre che mette in castigo il figlio levandogli la Play, tolse agli uomini il fuoco, condannandoli a una perenne condizione primitiva. Ma sempre secondo la leggenda, Prometeo una notte penetrò nell'Olimpo e riuscì a trafugare una torcia, riportando così il fuoco agli uomini che da quel momento iniziarono la loro definitiva evoluzione.

Sarà colpa di una accresciuta sensibilità venuta in dono a chi come noi sta girando i quaranta, ma se ci guardiamo indietro non ci sembra vero avere già vissuto più o meno consapevoli, lucidi, ubriachi, assonnati, speranzosi, delusi o felici trentanove Natali, e trovarci qui a fine novembre a ricordare i nostri preferiti, a sorridere e a borbottare che come sempre si stava meglio quando si stava peggio.

Con una buona approssimazione, possiamo dire che metà dei Natali passati per noi hanno avuto come comune denominatore l’attesa della Brighella, la birra di Natale del Birrificio di Lambrate, soprattutto durante gli anni ruggenti di via Adelchi, negli inverni freddi di inizio millennio quando ancora le birre le pagavamo in Lire e al futuro magari non ci pensavamo e se lo facevamo chissà che ci immaginavamo; chi lo sa: dopo tre o quattro Brighelle chi si ricorda più cosa o chi. 

Perché se non avete mai provato ad alzarvi da uno sgabellone del Birrificio di Lambrate a fine serata senza che tutto intorno a voi giri offuscato da una dolciastra nebbiolina alcolica, allora non potete dire di avere mai fatto una bevuta come si deve.

Quando pensiamo al fritto una delle prime pietanze a venirci in mente è il supplì con il suo cuore filante, una sorpresa gustosa che batte 6-0 6-0 qualsiasi regalino del noto uovo di cioccolato.
Non parliamo di sorpresa a caso quando ci riferiamo al ripieno del supplì, il nome stesso infatti deriverebbe dal francese surprise, sorpresa appunto, così come lo chiamavano i soldati francesi che occupavano Roma nell’ottocento. La storpiatura di surprise in surprisa, suppriva, supprì si è radicata infine nel termine supplì.
Insomma, a Roma questa palla di riso ripiena di mozzarella è una vera e propria istituzione, così come lo è il fritto in generale e fa specie pensare che nei primi secoli dopo Cristo fra i Romani questo metodo di cottura non fosse molto popolare, tanto che le pietanze fritte nel miele cotto, o in una miscela di olio e vino o olio e acqua, una volta pronte venissero innaffiate dal liquido di cottura per ammorbidirle, alla faccia della croccantezza.

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